Emergenza Covid: 4 storie di lavoratori in prima linea

Emergenza Covid: 4 storie di lavoratori in prima linea

In questi giorni sono tante le persone in prima linea che lavorano costantemente per la sicurezza di tutti noi. Medici ed infermieri/e passano intere giornate in corsia,  in perenne emergenza. Senza sapere quando potranno tornare a casa, per riposarsi poche ore prima di riprendere la loro missione. 

E poi ci sono tutte quelle persone che continuano il lavoro di sempre nella consapevolezza che il loro compito quotidiano non è più solo un’occupazione ma un aiuto concreto per superare questo momento difficile.

Ti raccontiamo quattro storie di lavoratori in prima linea. I nomi sono di fantasia.

Maria

Maria è una signora di 53 anni. Dipendente di Lavoro Associato da circa due anni, si occupa di pulizie. Da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria legata al Covid-19 il suo lavoro è cambiato. Le pulizie sono diventate sanificazioni. Oggi pomeriggio è di turno alle scale mobili di Lambioi, intenta a disinfettare i corrimano, le casse automatiche e le porte.
Di persone che salgono dal parcheggio per raggiungere piazza Duomo ce ne sono davvero poche. Il silenzio stranisce. Si sente solo il rumore del motore che muove il rullo sotto gli scalini automatici. Ma lei è lì a garantire che le superfici che tocchiamo siano pulite, meglio disinfettate. E poi Maria e i suoi colleghi e colleghe sono presenti anche negli studi medici, negli uffici degli enti locali, nelle comunità alloggio per persone con disabilità, perché sono molte le attività che non si sono fermate e che hanno la necessità di garantire la massima igiene.

Carlo

Carlo è uno dei ragazzi che a Lavoro Associato si occupa di facchinaggio. Abituato a smontare e rimontare mobili, a caricare e scaricare merci, oggi lavora negli ospedali del bellunese. La rapidità con cui riesce a compiere il lavoro e il suo senso pratico sono di fondamentale importanza ora che è necessario aprire nuovi reparti in tempo zero. Lo staff medico chiede nuovi spazi dove portare chi è bisognoso di cure e Carlo è pronto ad eseguire. Uno sguardo di intesa con i colleghi. Gli attrezzi in mano. Un sorriso a lavoro compiuto e poi via di nuovo, c’è ancora tanto da fare.

Rebecca

Rebecca fa la portantina da alcuni mesi. I primi giorni si perdeva tra i corridoi dell’ospedale di Feltre, oggi li potrebbe percorrere ad occhi chiusi, anche se i riferimenti cambiano di continuo. Le corsie sono affollate di medici ed infermieri che lavorano senza sosta. Rebecca sposta i pazienti, in carrozzina oppure sui letti muniti di ruote. Si occupa di portare i campioni biologici al laboratorio di analisi. Consegna documenti. Ritira carte. Si muove in silenzio, con profondo rispetto. Diventa invisibile, per non intralciare il lavoro dei dottori e delle dottoresse. Dietro le mascherine intravede le preoccupazioni, i timori, lo smarrimento di chi come lei è in prima linea in questa battaglia. La sera si addormenta in una piccola stanza lontana da quella dei suoi figli, da suo marito, nel timore di poter essere veicolo del contagio. “Tutto questo finirà” se lo ripete ogni volta prima di chiudere gli occhi.

Mario

Mario lavora in cimitero e ne ha viste tante nella sua vita. A volte vorrebbe solo dimenticare. Invece in questi giorni non riesce a fare altro che ricordare. Ricorda le persone che incontra ogni giorno da lontano. Le vede parlare ad una fotografia. Ritratti di donne sedute su un prato. Di uomini con il cappello d’alpino o con il bastone poggiato sulle ginocchia. Poche le domande che gli vengono rivolte mentre lui vorrebbe farne tante. Vorrebbe sapere tutto di quelle persone che ora non ci sono più, per poterle conoscere prima di dire loro addio. E invece non osa, teme di scalfire la sensibilità di chi è rimasto, di chi si ferma a ricordare il passato quando bastava fare una telefonata, quando sarebbe stato facile dimenticare le ostilità con un abbraccio, con un bacio. Ora non si può più. Ora c’è solo la terra nuda da togliere e rimettere.